di Paolo Iudicone Castiglioni
piudicone@coach2enjoy.org
Nella Ontologia del Linguaggio, Echeverría (“Ontologia del linguaggio’) mette in evidenza la forza che questo approccio attribuisce all’individuo. Come essere linguistico, l’essere umano si trasforma attraverso la tensione tra il “qui-ed-ora” e il Nulla del campo delle possibilità.
Sono d’accordo… Ma possibilità di fare che?
Echeverría non può rispondere “creare se stesso”, poiché non coincide con la visione platonica di un essere ideale e metafisico a cui l’individuo tenderebbe in tutta la sua vita inseguendo l’anelito socratico «gnôthi seautón!».
L’autore sopperisce a questa mancanza ricorrendo al concetto di “dare senso alla vita”.
Già, ma che darebbe senso alla vita dell’individuo?
Si potrebbe rispondere che è proprio la conversazione (con se stesso e/o il coach) il luogo in cui l’individuo dichiara ciò che dà senso alla sua vita e subito dopo agisce per conseguirlo.
Non sono soddisfatto. Mi manca una guida – quantunque non assoluta – che diriga l’individuo verso questo significato ultimo.
Questa necessità la vedo convincentemente risolta nella Terapia della Gestalt.
Se secondo Echeverría il kriterion è il “potere”, secondo Perls il “piacere”.
Quella di Perls e dei suoi successori – merita la pena chiarire – non è una visione meramente dionisiaca, piuttosto il contrario. La terapia della Gestalt invita l’individuo a stare nella emozione in ascolto della tensione al cambio verso un essere differente (Polster, La terapia della Gestalt integrata). In questo senso Fradin (Fradin-Le Moullec “Manager selon les personnalités”) evidenzia como tra le emozioni non si dovrebbero enumerare le positive (di piacere e gioia). Egli suggerisce di chiamare emozioni solo le negative, sintomatiche dell’evento della “rottura” echeverriano (sottintendendo rottura della trasparenza/neutralità del fluire della vita): la spinta alla fuga (paura/ansia), la spinta alla lotta (rabbia), la inibizione dell’azione (tristezza) e le loro derivate.
Passando attraverso il ciclo di contatto, nel quale l’individuo si muove dalla sensazione all’ambiente dove agisce per tornare di nuovo a se stesso (Menditto “Comunicazione e relazione”), questo essere differente si realizza (si crea). L’individuo infine si ritira in un rinnovato stato di equilibrio “organismico” (Perls “La terapia della Gestalt: vitalità e accrescimento nella personalità umana“) .
In pratica, il processo si configura nel seguente modo: proprio come, dopo aver messo una mano sul fuoco, il dolore ci avvisa che è necessario risolver una situazione che può comportare conseguenze per il nostro benessere, nella stessa maniera l’emozione ci segnala che ci troviamo in uno stato non soddisfacente. E come la parola emozione già contiene in radice il termine “muoversi” così la sensazione che essa ci fornisce avvisa che è necessaria una azione per uscire dalla sofferenza.
Non credo, in effetti, che sia casuale che Echeverría citi la eliminazione della sofferenza come primo caso del potere trasformazionale del linguggio (Echeverria, ibidem). Questo è precisamente il suo vero potere: indirizzare, a traverso la direzione stabilita dalla razionalità “neutra” della conversazione del coaching (Naranjo “La dimensione spirituale occulta o implicita della Gestalt”), la tensione tra la polarità negativa – l’essere qui-ed-ora che sperimenta la emozione – e la positiva – l’essere desiderabile in uno stato d’animo positivo. Nel raggiunto equilibrio “organismico” à la Perls, questo stato d’animo positivo è precisamente ciò che chiamiamo “felicità”.
In una visione contemporanea, la felicità è stata identificata come il “driver” dell’uomo evoluto nel momento della creazione di se stesso (Kolb/Whishaw “Fundamentals of Human Neuropsychology”), in parallelo al piacere come fattore essenziale della motivazione non solo del homo sapiens, ma anche di tutti gli altri primati superiori (Pasaro Dionisio “Bases biológicas de la felicidad”). E’ lo stato d’animo positivo che nasce nella corteccia cerebrale quando l’individuo raggiunge la coscienza della sua autoefficacia in connessione con gli altri esser umani e con l’ecosistema in cui vive, secondo una accezione di ricchezza espessa in beni relazionali (Menditto).
Già questo solo ci inviterebbe a prendere la felicità come misura del successo del colloquio di coaching.
Ma c’è di più. La psicologia positiva ci ha messo in evidenza che la felicità genera opportunità per coloro che la sperimentano e quindi non starebbe solo alla fine del percorso di coaching, ma sarebbe anche la “fonte” che apre il sentiero dell’empowerment (Anchor “The happiness advantage”).
Per risolvere l’apparente circolo vizioso “bisogna stare bene per stare bene”, la psicologia positiva si appoggia alla terapia cognitiva: la premessa di questa metodologia è che una determinata emozione nasce a partire alla interpretazione che un coachee fa di un evento. Con un esempio molto chiaro, Burns ci invita a lavorare su questa interpretazione affinché l’emozione negativa si allievi: «le emozioni seguono il pensiero come i pulcini la madre; però il fatto che i pulcini seguano fedelmente la madre, non significa che la madre sappia dove sta andando». Pertanto, per instaurare uno stato d’animo positivo a partire dall’emozione negativa è necessario e sufficiente reinterpretare l’evento alla base disfacendosi del pensiero distorsivo (Ben Shahar, “Felicità”).
Per fare questo, il coach aiuta il cliente a inserirlo in un contesto che dia all’evento stesso un senso specifico e una prospettiva funzionale (Menditto).
La conversazione di coaching, dunque, non solo può essere orientata verso la felicità, ma può anche invertire la direzione disfunzionale evento – emozione creando lo stato d’animo positivo.
Tuttavia, affinché il coachee trovi il coraggio di esplorare e intervenire su se stesso, l’altro, l’ambiente con una visione differente dall’abituale è necessario che sia convinto di una “perdita momentanea di sicurezza” (Menditto).
Proprio per questo, è mia opinione che non sia necessario arrivare all’incisività dell’intervento propugnata dello stesso Perls, secondo il quale la maggioranza della psicoterapia non era differente a dare il brodino a un malato (Resnick “Chicken soup is poison”, Naranjo). L’intervento di coaching richiede una adeguata alternanza tra appoggio e frustrazione (Baiocchi “Il Counsellor come diffusore sociale in una cultura fondata sull’etica e sull’empatia”) pur ricordando il principio del Maestro, secondo cui «la prima responsabilità del terapeuta è non lasciar passare, senza discuterla, qualunque affermazione o condotta del paziente che non sia rilevante oppure evidenzi una mancanza di auto-responsabillità” (Perls).
Quello che i coachee sono invitati a fare è propro utlizzare la loro forza di volontà per cambiare il modo in cui processano il mondo e le strategie che mettono in piedi. Si tratta di fargli trovare ciò che li fa stare bene e quelle risorse interne che Perls definiva “quello che già è lì” perchè si sentano in grado di agire.
Di fatto, non esiste problema che non sia un blocco dell’energia vitale del cliente, blocco che si esprime tanto livello psichico, como a livello corporale. É nel corpo, con un paradosso stupendamente spiegato de Tolle, che l’essere umano trova un altro tipo di senso, ancora più alto e che integra e trascende l’obiettivo di vita quotidiana che il coachee desidera discutere in sessione: «le emozioni ti porteranno più vicino alla verità, di quanto possa fare il pensiero», giacché, nel corpo «vi è un vasto regno di intelligenza al di là del pensiero». Per questo, il coach, mentre lavora su situazioni quotidiane e concrete, mira simultaneamente a raggiungere la comprensione profonda della alienazione basica della società contemporanea, che, creando bisogni e quindi sofferenze inutili, frustra le reali potenzialità dell’essere umano (Taroppio “El vinculo primordial”).
Sì, siamo tornati a Echeverría: dare potere è la chiave di un coaching di successo.
Però, non ce lo dimentichiamo in sessione!, potere di essere felici.
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